Mick Jagger, la fama non fa sconti

L’indomito rocker bisnonno (sua nipote Assisi, figlia di Jade, ha partorito una bambina a gennaio), arrivato a 71 anni schivando le insidie di una vita ricca ma complicata, a tratti tragica, ha più volte dichiarato di essersi «salvato grazie alla musica».

Incontro Mick Jagger a New York, non del tutto a suo agio, forse per l’imbarazzo nel tornare in pubblico a poca distanza dal suicidio della compagna L’Wren Scott, stilista scomparsa nel marzo scorso.

Nonostante un avvio un po’ faticoso alla fine è felice di parlarmi di Get on up, il biopic su James Brown (nelle sale) girato da Tate Taylor e interpretato da Chadwick Boseman, di cui è produttore.

«Ho James nel cuore da sempre, mi sono ispirato a lui quando ho cominciato a fare musica. Sul palco era unico, si muoveva in un modo che tanti di noi hanno cercato di copiare», dice. «Volevo che il mondo sapesse che vita pazzesca ha fatto: dall’infanzia poverissima, abbandonato dai suoi genitori e cresciuto da sua zia all’interno di una casa chiusa, fino alla celebrità e all’attivismo sociale e politico, superando difficoltà enormi senza mai arrendersi».

Vi siete conosciuti e frequentati a lungo. Come andò il vostro primo incontro?
I miei ricordi risalgono a circa 50 anni fa, mi perdonerete se non sono preciso. Eravamo al T.a.m.i. show, un grande concerto collettivo in cui noi Stones commettemmo il più grave errore della carriera: accettare di esibirci dopo James Brown, che naturalmente si arrabbiò molto perché voleva essere lui a chiudere la serata. E così mandarono me a parlarci.

Perché proprio lei?
Ero lì, ed ero molto ingenuo. Mi dissero: “Sei la persona più adatta. Digli che si dia una calmata!”. Quando hai vent’anni rispondi: “Certo, me ne occupo” e non una cosa più sensata, tipo “non è compito mio”. Così andai: ovviamente, non funzionò. Finimmo col litigare. Ma lui fece comunque un’esibizione pazzesca, memorabile.

Dopo quella occasione vi siete visti più volte.
Siamo in un certo senso diventati amici. Negli anni ’70 andavo spesso ai suoi spettacoli. Uscivamo anche assieme, e una volta salii sul palco con lui all’Apollo Theatre di Harlem. Un posto speciale, in cui James registrò anche un disco live, uno dei suoi capolavori. Ne ho amato ogni nota e l’ho imparato a memoria, suonandolo fino allo stremo. Lo strano è che non l’avevo mai visto interpretato dal vivo, in effetti, ma mi ero immaginato tutto nella testa.

Cosa c’è di attuale nella musica di James Brown?
Con gli Stones abbiamo suonato tanti suoi brani, e non abbiamo ancora smesso di farlo. Scampoli delle sue canzoni sono usati in pubblicità, nelle colonne sonore, sbucano nei jingle più impensati. Se vuoi essere un musicista, lo devi conoscere. Altrimenti non sei completo.

Ha mai sognato di scambiare la sua vita con quella di James Brown?
(Ride) Mi ha influenzato in molti modi, anche se non ho mai voluto essere una sua copia. Quel che ho sempre sognato di “rubargli”, semmai, è il modo che aveva di stare sulle scene e di comunicare con il pubblico. Se tutti amavano James un motivo doveva pur esserci, e spero che il film renda giustizia a lui e alla sua storia.

Qual è stato il momento più difficile nella realizzazione di Get on up?
Convincere gli Studios di Hollywood. È quella la parte più dura. Anche se hai una buona sceneggiatura e un ottimo progetto, prima di iniziare anche solo a fare il casting devi sapere che lo studio ti darà i soldi.

A conti fatti, perché dovremmo andare a vedere questo film?
Perché è più di un film biografico. Esce dai canoni del genere. È coinvolgente: racconta la vita di un ragazzo qualunque che vuole essere percepito come speciale perché in fondo sa di esserlo. Da un lato è una storia di avversità, tormenti e fatiche, dall’altro riporta in maniera fedele la determinazione di James, l’ossessione della celebrità, il prezzo che ha pagato per arrivare fin lì.

E il prezzo per lei, Mick, qual è stato?
C’è sempre un prezzo da pagare per diventare famoso. Anch’io ho avuto il mio. La vita non fa sconti a nessuno, per quanto tentiamo di illuderci che sia vero il contrario, e a volte finiamo col crederci. Almeno per un po’.

(Mattia Pasquini per “Gioia”)

 

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